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Le interviste e le recensioni

Segnalazioni letterarie

a cura di Alberto Raffaelli (Bollettino Settembre)

Loredana Manciati, “La nuova Giulia. Una barca oltre le tempeste”, Torino , Pathos, 2022

       Loredana Manciati in questo nuovo romanzo, che segue di un biennio “L’enigma dei suoi occhi”, racconta l’elaborazione di un lutto, compiuta soprattutto grazie a una compenetrazione con la natura svolta in due fasi: dapprima in un ambiente costiero ligure popolato di gente laboriosa e foriero – secondo tradizione – di spinte immaginative, e poi su grandi e agitate distese d’acqua.

       Punto di partenza è una tragedia marinaresca che, tra realtà e visione, innesta un binomio con una tradizione, quella dei maestri d’ascia e dei costruttori di imbarcazioni, che persiste come presenza d’antan e vintage, sull’inevitabile sfondo di uno sviluppo vorticoso ed industriale che però qui resta fuori scena, escluso dalla descrizione di un piccolo mondo antico quasi nascosto cosparso di borghi e dirupi rivieraschi.

       I vari contesti di svolgimento del romanzo appaiono strettamente connessi alle percezioni del protagonista Serge, che aggiorna il dinamismo della sua vita precedente trasformandolo in istinto di fuga e nuova partenza tesa a superare il dolore della perdita, trovando simmetria con una vecchia disgrazia altrui.

       La parabola raffigurata può richiamare un Conrad privato dell’elemento esotico come pure una Moby Dick mediterranea, nel tentativo di un abbandono che si rivela, se non impossibile, meno lenitivo di quanto auspicato. Anche nel viaggio per mare si scoprono infatti responsabilità che comportano affetti, se non altro nei confronti dei compagni d’avventura, e ciò implica il reiterarsi di un peso che forse l’impresa ideata nel corso della narrazione vorrebbe resettare (per quanto l’intento di fare tabula rasa non sembra prioritario nell’economia del romanzo).

       Ma al di là di tensioni ideali o aspirazioni utopistiche il messaggio del libro consiste molto nell’accuratezza descrittiva e nel senso dei particolari, che pur non appesantendo lo stile svelano – mettendo a frutto il talento pittorico della Manciati (già docente di arte e disegno e con all’attivo numerose mostre personali) – una competente adesione non solo ai sentimenti dei personaggi ma anche ai dettagli concreti: dal senso di nuovo inizio che ispira gran parte delle azioni, ai cenni di lessico specialistico e tecnicismi della navigazione, per andare fino alle pieghe più minimali del testo, come quelle nelle ultimissime righe che sembrano rivelare il senso – forse atteso, ma comunque lasciato sapientemente in bilico – dell’intera storia.

       Alberto Raffaelli (albertoraf2@gmail.com)

Katia  Tenti, “Resta quel che resta”, Milano, Piemme, 2022

        La bolzanina Katia Tenti, dopo la riuscita accoppiata di crime sudtirolesi “Ovunque tu vada” (2014) e “Nessuno muore in sogno” (2017), cambia registro – ma non ambientazione – passando all’affresco storico.

       Ci sono storie nate per essere raccontate, che fluttuano per così dire nell’aria e circolano per fior di lustri al calore dei filò nordici o nelle veglie estive, nei cortili delle case coloniche o nei più altolocati salotti familiari: piccole saghe di gente inizialmente per lo più semplice che, dall’etica di una sopravvivenza spesso nemmeno dignitosa improntata alla perpetuazione della specie e a riti e tradizioni che si ripetono da sempre, intraprende un cammino evolutivo dal profilo  darwinisticamente selettivo. Il compianto Antonio Pennacchi in un’intervista disse di sentirsi parte proprio di una genìa di scrittori che, moderni cantori, afferrano queste storie vaganti travasandole quasi per necessità su carta.

       La Tenti, pur raccogliendo alcune di queste suggestioni, approccia la materia in materia più articolata, imbastendo fin dall’inizio una polifonia sociale che contempla vari livelli. Appare perciò congruo l’irrompere in queste vicende particolari della grande Storia, del cambiamento epocale che imprime un’irreversibile soluzione di continuità ad usanze e abitudini che – almeno per taluni protagonisti – s’indovinano secolari. E tale frattura può prendere varie forme, come la guerra, l’emigrazione e soprattutto il contatto e la mescolanza tra tipologie umane varie.

       Autrice navigata, bookcoach ed esperta dei meccanismi creativi ed editoriali, la scrittrice si cimenta convincentemente in un filone impegnativo, dipingendo un complesso di personaggi che costituisce il lievito di una vicenda fatta di tante psicologie, la cui somma approda a uno spaccato storico e sociologico che – configurandosi come epopea di volta in volta familiare, cittadina e regionale – attraversa i decenni e fa intravedere in filigrana caratteri e dinamiche ancor oggi attuali nella complessa realtà altoatesina.

       Perché obiettivo della Tenti è quello, mediante i diagrammi composti da scalate e discese esistenziali, di dimostrare come la supposta razionalità storica alla prova dei fatti si riveli in realtà assai indecifrabile nelle combinazioni di progetti e destini: e non è un caso che un ruolo di rilievo paia svolto dai “diversi”, Max il “malato” e Sante il “selvaggio” (nonché potenziale revenant), che in quanto perturbatori sembrano tenere in mano il filo dell’azione principale del romanzo.

       E, ancora oltre, il nucleo ispirativo più profondo di quest’intreccio cronachistico e collettivo – nel suo meticoloso ancoramento al territorio però al contempo proteso con lo sguardo al di là di esso – si configura come omaggio, sentimentale e insieme analitico, verso una città natale composita e percepita in perpetuo divenire, soggetta al flusso degli arrivi e degli abbandoni: ma si tratta di un ossequio, pur se assai sincero, non privo di perplessità, che sembra contemplare come il senso di identità sia complementare alla possibilità dell’allontanamento. In fondo, quel che resta – è il caso di dirlo – da questa lettura è uno speciale miscuglio di attaccamento e nostalgia.

       Alberto Raffaelli (albertoraf2@gmail.com)

Carlo De Rossi, “Becco pieno”, Torino, Pathos Edizioni, 2022

       “Becco pieno” è un’opera assolutamente indicativa dei nostri tempi: lo stile sincopato, adatto alla compulsiva cinematicità odierna, e gli intrecci di voci plurimediatici vi strutturano lo scorrimento continuo – ormai pienamente esecutivo anche in letteratura – tra le modalità colloquiali tradizionali e quelle della Rete: e proprio tale flusso indistinto di modalità comunicative fisiche e social costituisce il perno della scrittura, unicum conversevole la cui articolazione rappresenta uno degli elementi più incisivi e dinamici della narrazione.

       Già nella forma consiste perciò parte del messaggio del romanzo, il cui senso è però ovviamente completato dai contenuti veicolati attraverso questo network. Al di là della consuetudine con schermi e devices, nella scanzonata (“ultrasensibile” e “tripolare” sono due tra gli aggettivi con cui si autodefinisce) protagonista Graziella risalta comunque un marcato bisogno di affettività, che oltre al surrogato rappresentato dagli animali domestici assume tratti talvolta persino di una sessualità ai limiti della ninfomania, a emblematizzare i meccanismi comportamentali di una società ormai “tecnoliquida” nelle sue strutturazioni interpersonali e collettive (si vedano l’assai frequente mancanza di famiglie tradizionali e la sostanziale sfiducia nella scuola). Tra i pochissimi punti fermi per lei c’è il figlio (però sballottolato in balìa degli eventi).

       Il libro, travolgendo ritmi e modus vivendi compassati, raduna con costipata efficacia diversi segni dei tempi. Nella “deriva fusionale” che è la vita di questa donna indipendente (?) spiccano continui riferimenti gastronomici e al gourmet: Graziella è implicata nella ristorazione, e abbondano ricette e preparazioni varie (ritorno in primo piano, e spettacolarizzato, di uno dei bisogni primari). E ci sono poi i corsi di creative writing (scrivendo la protagonista trova i momenti di riflessività più distesa), il buddismo, i centri olistici, i tarocchi, studi universitari sulla gentilezza, il coaching motivazionale come input per incrementare la crescita personale: elementi tutti riconducibili a una visione modernizzata e “à la page” dell’esistenza.

       Certo, come sine qua non di una siffatta sarabanda c’è un fattore C, quell’avvenenza – oggigiorno ancor più regina del mondo – che rende Graziella a tratti pure arrogante: ma è proprio questo reagente ad animare il caleidoscopio di un milieu benestante qualsiasi (che la vicenda sia nello specifico di collocazione torinese è riconducibile alla biografia dell’autore; ma si sarebbe potuta ambientare in qualsiasi altro non-luogo), dandone un esaustivo spaccato psico-sociologico.

       Si potrebbero – ma non lo facciamo, beninteso – muovere obiezioni di carattere persino etico a un romanzo siffatto, manifesto dei nostri giorni e d’indifferentismo rispetto a certi valori, che però con altrettanta evidenza abbina sistematicamente materialità e bisogni spirituali, imprenditoria e meditazione, corteggiatori in serie e adozione a distanza.

       Appare invece più pertinente sottolineare come queste pagine mostrino la vita “vera” di un 2022 qualsiasi, illustrandola con tranches incalzanti. Infatti un importante dato stilistico di “Becco pieno” è la conferma di come sempre più spesso la narrativa del terzo millennio conduca le analiticità e l’introspezione attraverso situazioni di costante connessione on line, condite di sfilze di brand ed etichettature varie, nonché demarcativi grafici.

       Le piccole grandi storie del quotidiano oggi sono espresse tramite chat, like, gif e smiles, e gli scrittori ricorrono a commenti social e iconcine ormai elevate a una dignità e densità espressive simili a quelle delle forme discorsive tradizionali, connotando così le trame di un iperbolico effetto realistico.

       E a chi imputasse a “Becco pieno” tonalità e profili eccessivamente epidermici, si potrebbe ribattere con Hofmannsthal che “la profondità va nascosta. Dove? Alla superficie”.

       Alberto Raffaelli (albertoraf2@gmail.com)

Massimiliano Parente, “L’amore ai tempi di Batman”, Milano, La Nave di Teseo, 2022 (1a ed. 2016)



       L’amore ai tempi di Batman, di Massimiliano Parente, è un libro spassosissimo, che regala momenti di pura goliardia, quando non addirittura di comicità irriverente. La storia surreale – un giovane ricco che, dopo aver casualmente indossato i panni di Batman, si proietta in una serie di rutilanti avventure che culmineranno in un folle gesto d’amore – alimenta una lettura in cui si alternano, con finta nonchalance, frasi ad effetto, becero razzismo e riflessioni semi-serie sulla vita, sulla religione e sulla scienza.
       Apparentemente leggero, questo libro, che si nutre di situazioni grottesche, contiene alcune analisi interessanti le quali offrono al lettore la possibilità di approfondirle secondo la propria sensibilità. La cifra del testo è di taglio nichilista: eppure, in questo cinismo dilagante che vorrebbe disturbare pur senza riuscirci mai fino in fondo, ci sono briciole di romanticismo puro, spicchi di poesia, una tenerezza latente che quasi commuove.
       Le ultime pagine riscattano alcuni capitoli privi di personalità: la chiosa finale sul senso dell’amore vero, con una feroce critica a chi “è disposto ad accettare solo amori addomesticati”, inquadrati in un patto sociale, secondo un classico e triste “gioco di convenienze”, andrebbe letta tutta d’un fiato. Provando poi a ripetersi che non è vero.

       Alessandro Orofino

Don Winslow, “Città in fiamme”, HarperCollins, 2022

        Pistole fumanti. Traffici di droga. Conversazioni ruvide. Tutto l’armamentario di Don Winslow ritorna nel suo ultimo libro, “Città in fiamme”, edito da HarperCollins, il primo di una trilogia che promette di tenere incollati i lettori ad una nuova ed epica storia. Se poi ci riuscirà, questo è un altro discorso. Il registro tematico e linguistico dello scrittore statunitense si ritrova intonso anche in questa opera. Per gli affezionati del genere, dunque, una piacevole conferma. Ancora una volta, infatti, il game è giocato da due gang rivali – gli italiani e gli irlandesi – costretti a mettere mano alla fondina per ripianare un torto che ha origini passionali, proprio come nell’Iliade. I Moretti e i Murphy si scontrano a suon di pallottole a Providence, in Rhode Island, per il controllo di un territorio che sta cambiando sotto i loro occhi, giorno dopo giorno. Tanti i personaggi di queste pagine, non sempre facili da ricordare: tra tutti Danny Ryan, un irish man chiamato a decisioni molto più grandi di lui. La storia è interessante, anche se alla lunga il sapore è sempre lo stesso. Si ha quasi l’impressione di assistere ad un usato sicuro che appassiona proprio perché non cambia mai. Diventa allora difficile eccellere in originalità, quando il copione si ripete. Ma probabilmente è ciò che vuole Winslow, il quale rimane un grande narratore, forse un po’ sottotono in questa ultima pubblicazione.

       Alessandro Orofino

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