Categorie
Arte nell'arte

I geroglifici: una forma d’arte

di Maria Pina Garaguso

Ancora oggi pensare agli antichi egizi ci rimanda immediatamente ad alcuni punti fermi: le piramidi, le sfingi, i faraoni, i geroglifici. Parole e immagini che stimolano la nostra curiosità e fantasia, suscitando anche quell’aura misterica che, fortunatamente, gli archeologi di ieri e di oggi stanno faticosamente scardinando dall’immaginario collettivo.

Fig. 1 Ritratto di Jean-François Champollion da parte di Léon Cogniet (httpwww.histoire-image.orgphotozoomdor8_cogniet_001f.jpg. Pubblico dominio, httpscommons.wikimedia.orgwindex.phpcurid=6919529).

Uno dei più grandi “misteri” relativi a questa civiltà, fino a soli 200 anni fa, è stato il loro sistema di scrittura, che il francese Jean-François Champollion (Fig. 1) ha mirabilmente decriptato. Fino al 1822, e per circa 1500 anni, la scrittura geroglifica era rimasta sostanzialmente incompresa, anche se numerosi erano stati i tentativi da parte degli studiosi. Le prime proposte interpretative da parte degli studiosi arabi medievali, tra cui Jabir ibn Hayyan e Ayub ibn Maslama, sono andate perdute, per cui non è possibile avere oggi un’idea di quanto fossero progredite le loro intuizioni, anche se è probabile che, conoscendo già la lingua copta, avessero compreso la natura fonetica del geroglifico. Essendo la lingua copta la lingua dei cristiani, era stata facilmente interpretata anche in occidente, soprattutto dopo il recupero della conoscenza del greco nel Rinascimento, grazie alla traduzione integrale della Bibbia e dei Vangeli dal greco in copto.

Fig. 2 Stele di Rosetta (The website of the European Space Agency (ESA) [1], Pubblico dominio, httpscommons.wikimedia.orgwindex.phpcurid=2819693).

Per i primi risultati più soddisfacenti bisognerà, però, attendere ancora due secoli, quando il gesuita tedesco Athanasius Kircher, studiò un antico vocabolario copto-arabo rinvenuto nel 1615 dal romano Pietro della Valle durante un viaggio in Egitto. In seguito alla traduzione di questo vocabolario, comprese che la lingua copta è discendente diretta di quella geroglifica. Nonostante questo importante risultato, le sue interpretazioni sul funzionamento della lingua geroglifica erano ancora molto lontane dalla realtà, in quanto lui pensava che ogni simbolo racchiudesse una molteplicità di significati, non direttamente intuibili se non dal destinatario del messaggio che era la divinità a cui ci si rivolgeva. In poche parole, spiegava quello che non capiva attribuendolo alla magia e, seppur avesse intuito lo stretto legame fra questa lingua e gli dei (ricordiamo che già i greci avevano chiamato questa lingua geroglifica, ossia “segni sacri incisi”), non ne aveva ancora compreso la sua natura semantica.

Nel 1799, in seguito alla campagna napoleonica in Egitto che ha consentito la “riscoperta” dell’Egitto faraonico, è emersa a Rosetta (oggi Rashid), un sito del delta del Nilo, una stele in granodiorite che riporta un’iscrizione in tre registri e in tre differenti grafie: geroglifico, demotico e greco (Fig. 2). Quando, due anni più tardi, i francesi si arresero agli inglesi, la stele, insieme a gran parte dei reperti che questi avevano rinvenuto, divenne bottino in nome del re Giorgio III, ed è ancora attualmente esposta al British Museum di Londra. Fortunatamente ai francesi venne concesso di tenere i disegni e le annotazioni del loro passaggio, che avrebbero poi costituito la monumentale opera in 24 volumi chiamata “Description de l’Égypte”. Fu proprio la possibilità che ebbero diversi studiosi di accedere a questi appunti che favorì il deciframento di questa lingua ormai desueta da circa 1500 anni: l’ultima iscrizione geroglifica nota è un graffito nel tempio di Iside a File, e si data al 24 agosto del 394 d.C., mentre l’ultima iscrizione in demotico, una scrittura discendente dello ieratico, che può essere considerata una “corsivizzazione” del geroglifico, ma con l’introduzione di nuovi segni e nuove regole grammaticali, è di circa un cinquantennio (452 d.C.) più recente.

Fig. 3 Cartiglio del sovrano Tolomeo V (https://historiaeantiquae.com/articoli/egittologia/la-decifrazione-dei-geroglifici/).

La prima importante intuizione, da parte di Thomas Yong che era il ministro degli esteri della Royal Society di Londra, fu quella di comprendere che i segni nei cartigli erano nomi propri e non erano ideogrammi, bensì fonemi, per cui bisognava prima di tutto procedere ad un’associazione dei primi fonemi nei cartigli. Traslitterando i cartigli individuò innanzitutto i caratteri fonetici con cui era stato scritto il nome del sovrano macedone Ptolemaios (Tolomeo) e, inoltre, notò che questi caratteri somigliavano a quelli equivalenti nel testo geroglifico (Fig. 3). In seguito ad uno scambio epistolare con il docente francese Jean-François Champollion, questa teoria divenne universalmente valida e, dopo aver individuato e traslitterato il nome di un altro sovrano tolemaico, Cleopatra, il francese procedette alla redazione di un alfabeto di caratteri geroglifici fonetici che inviò al segretario della Académie des Iscriptions et belle-lettres di Parigi, M. Dacier, e che fu immediatamente pubblicato.

Fig. 4 Bassorilievo nel tempio di Edfu raffigurante Apopi trafitto da numerosi coltelli (I, Rémih, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7271735).

Le intuizioni di Champollion hanno aperto le porte agli studi dell’egittologia moderna e, ad oggi, il geroglifico è per lo più traslitterabile e traducibile. Bisogna, tuttavia, non sottovalutare l’apporto di Kircher, che ne aveva compreso il significato intrinseco. La lingua geroglifica, infatti, oltre al valore semantico presenta un importante significato simbolico: dal momento in cui una parola viene scritta prende vita e può essere contraddistinta da proprietà benefiche o anche pericolose, motivo per cui in alcuni casi è necessario adottare degli accorgimenti. Rispetto alla nostra lingua, il geroglifico non si compone solo di segni dal valore fonetico, ma anche di determinativi che specificano il senso della parola, e sono proprio questi determinativi che possono agire a seconda dell’evenienza (Fig. 4). Non è insolito, infatti, trovare segni “pericolosi”, messi in condizione di non agire; fra i più comuni, i rettili che vengono deliberatamente tagliati in due o più parti. È evidente che la scrittura egizia fatta di immagini non è semplicemente una forma per comunicare, ma anche una importante espressione artistica, mediante cui creare un’altra realtà, rispetto a quella terrestre. Le immagini e le parole sono quindi, per gli egizi veicoli di idee, non solo religiose, ma anche per esprimere concetti della loro vita quotidiana.

Per noi, oggi, questa è un’idea abbastanza bizzarra, ma dobbiamo sempre ricordare che stiamo parlando di popolazioni vissute millenni di anni fa, la cui percezione della realtà è totalmente distante dalla nostra, anzi spesso ancora oscura e incomprensibile, al punto da giudicare ancora quello che non comprendiamo come “misterico”. Come abbiamo visto, però, ciò che a prima vista sembra impenetrabile, in realtà non lo è, se si individua la giusta chiave di lettura, proprio come Champollion 200 anni fa ha intuito il meccanismo che ha consentito la comprensione dei geroglifici.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *